La violenza sessuale rappresenta indubbiamente una delle forme di violenza più ripugnanti. Si tratta infatti di un comportamento che aggredisce la vittima in un ambito della propria sfera personale particolarmente vulnerabile, senza considerare la disparità di forze che generalmente caratterizza la vittima e l’aggressore in questi reati. Cerchiamo allora di vedere in quali ipotesi ed alla luce di quali presupposti la giurisprudenza riconosce la sussistenza del delitto di violenza sessuale.
Fino al 1996 le condotte latu sensu di violenza sessuale venivano ricondotte all’applicazione di due diverse fattispecie di reato: il delitto di “violenza carnale“, di cui all’art. 519 C.p., e quello di “atti di libidine violenta“, di cui all’art. 521 C.p. In particolare, ricorreva il primo nelle ipotesi più gravi di violenza sessuale penetrativa, mentre negli altri casi si applicava il secondo delitto, che prevedeva una pena meno grave.
Un tale assetto normativo è tuttavia stato completamente modificato nel 1996, quando i due predetti reati sono stati abrogati e si è introdotta la nuova fattispecie onnicomprensiva di “violenza sessuale” di cui all’art. 609-bis C.p.
Merita infatti di ricordare come le prime due fattispecie, ora abrogate, rientrassero nella categoria dei reati contro la moralità pubblica ed il buon costume. Invero, il codice penale del 1930 punivano le condotte di violenza sessuale non tanto per tutelare l’incolumità e la dignità della vittima, bensì per “proteggere la società” dallo scandalo che tali episodi destavano. Con la riforma del 1996, la violenza sessuale diventava invece a pieno titolo una fattispecie di reato contro la persona, volta a tutelare la libertà personale di quest’ultima a prescindere da ogni riferimento alla categoria del buon costume.
Vediamo allora più da vicino la norma in questione. Ai sensi dell’art. 609-bis C.p., “chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o a subire atti sessuali è punito con la reclusione da cinque a dieci anni. Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a a compiere o subire atti sessuali: 1) abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica delle persona offesa al momento del fatto; 2) traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona. Nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi“.
Alla luce di un siffatto testo normativo, si è fin da subito posto il problema di stabilire cosa dovesse intendersi per “atto sessuale”, così da definire fino a quali longitudini interpretative potesse estendersi un tale concetto.
Il concetto di atto sessuale
Da questo punto di vista, sono state suggerite due possibili percorsi interpretative. Secondo la teoria anatomica, andrebbero intesi come atti sessuali tutti quei contatti che ineriscono alle zone erogene del corpo. Secondo la teoria contestualista, diversamente, si avrebbero atti sessuali del tutto a prescindere da quali siano le zone del copro coinvolte dal contatto, dovendo piuttosto valorizzare il contesto nel quale tali atti vengono posti in essere. In particolare, secondo quest’ultima teoria, per stabilire la sessualità di un atto bisognerebbe avere riguardo a: 1) le modalità della condotta nel suo complesso; 2) il contesto in cui l’azione si svolge; 3) i rapporti intercorrenti tra le persone coinvolte; 4) altri elementi sintomatici di una compressione della libertà sessuale.
Quanto alla giurisprudenza della Corte di Cassazione, essa è prevalentemente allineata sulla teoria anatomica, anche se non mancano richiami a quella contestualista al fine di estendere i margini del penalmente rilevante. In particolare, secondo le recenti sentenze n. 964/2015 e 10248/2014, accanto alle zone del corpo indubbiamente classificabili come erogene, e perciò in grado di qualificare ogni toccamento delle medesime come “sessuale”, ce ne sarebbero altre che, seppur non strettamente erogene, se toccate potrebbero comunque dare luogo ad una lesione della libertà sessuale della vittima in relazione al contesto.
Seguendo il suddetto orientamento, vi sono perciò state ipotesi nelle quali anche un fugace bacio sulle labbra o addirittura un abbraccio, sono stati qualificati come atti sessuali, potenzialmente in grado di giustificare l’applicazione del delitto di cui all’art. 609-bis C.p. (Cass. n. 10248/2014).
A prescindere dall’orientamento preferito, tuttavia, per aversi violenza sessuale è comunque sempre necessario accertare il contatto fisico. In mancanza, vi sarà al più spazio per l’applicazione della ben più blanda fattispecie contravvenzionale delle molestie, di cui all’art. 660 C.p.
Le modalità della condotta incriminata
Quanto alle modalità della condotta, va ricordato come il legislatore italiano, al contrario di quel che capita nella tradizione giuridica anglosassone, non si sia accontentato di scolpire la tipicità della fattispecie incardinandola sulla mancanza di consenso della vittima, pretendendo invece specifiche modalità di condotta.
Secondo la legge, infatti, per aversi violenza sessuale occorre che il responsabile costringa la vittima a subire l’abuso mediante una delle seguenti modalità di condotta: 1) violenza; 2) minaccia; 3) abuso di autorità; 4) abuso della condizione di inferiorità psico-fisica della vittima al momento del reato; 5) inganno della vittima con sostituzione di persona.
Nonostante questa evidente limitazione posta dalla norma, la giurisprudenza ha spesso allargato per via interpretativa tali concetti fino a ricomprendervi situazioni che, in senso stretto, non potrebbero dirsi realizzate tramite queste specifiche modalità di condotta.
Si è così coniato il concetto di atti sessuali per “costrizione ambientale”, nei quali la vittima, pur dissentendo all’atto sessuale, non vi si oppone espressamente per lo stato di soggezione psicologica scaturita non da una minaccia attuale, ma da un timore più generico ed implicito di subire conseguenze negative in caso di rifiuto (v. Cass. 21452/2015).
Un’altra ipotesi in cui i limiti esegetici della norma incriminatrice sono stati dilatati dalla giurisprudenza al di là del significato letterale dei termini può rinvenirsi nel caso degli atti sessuali “repentini” e “insidiosi”, come il bacio fugace e la pacca sul gluteo. Anche qui il concetto di violenza è stato ampliato dalla giurisprudenza ben oltre il significato originario del termine, così da non lasciare margini di impunità (v. Cass. 15443/2015).
Le ipotesi di violenza sessuale realizzate per il tramite dello sfruttamento dell’ignoranza e della superstizione della vittima, invece, sono state attratte nell’area dei comportamenti punibili riconducendole all’abuso dello stato di inferiorità psicofisica della vittima. Una tale soluzione è peraltro stata applicata anche ad ipotesi nelle quali l’abuso s’incardinava su meri stati di fragilità caratteriale e di momentanea prostrazione psicologica della vittima (v. Cass. 36896/2013).
L’attenuante della minore gravità
Merita infine qualche accenno all’ipotesi attenuante speciale della minore gravità del fatto prevista dall’ultimo comma dell’art. 609-bis C.p., che garantisce un forte sconto di pena fino ai 2/3.
Come già accennato all’inizio, fino al 1996 le ipotesi di violenza sessuale davano luogo all’applicazione di due diversi reati: quello più grave di violenza carnale, che ricorreva quando vi era penetrazione della vittima; e quello più lieve di atti violenti di libidine, che ricorreva nelle altre ipotesi.
Con la riforma del 1996, l’aver ricondotto tutte queste ipotesi ad un’unica fattispecie ha imposto al legislatore di inserire questa ipotesi attenuante per garantire un trattamento sanzionatorio non sproporzionato nei casi più lievi (si pensi alla classica pacca sul gluteo).
Secondo l’attuale interpretazione della norma, per stabilire quando vi è spazio per l’applicazione della diminuente e quando invece no, non può più farsi riferimento al vecchio elemento discriminante della penetrazione .
Bisogna piuttosto ponderare la complessiva gravità dell’abuso facendo riferimento alla globalità della vicenda, ai mezzi e alle modalità esecutive utilizzate, al grado di coartazione della vittima, alle condizioni psicofisiche di quest’ultima, nonché alle caratteristiche psicologiche della medesima rispetto all’età, così da accertare che la compressione della libertà sessuale della persona offesa sia stata di lieve entità (v. Cass. 5733/2015).
Pena estremamente più severa è invece riservata dall’ordinamento per le ipotesi di violenza sessuale di gruppo. Ai sensi dell’art. 609-octies C.p., invero, per chiunque commetta atti di violenza sessuale in gruppo è prevista la pena dai sei ai dodici anni di reclusione.
Da ultimo, merita di ricordare come, secondo l’ordinamento, si acquisti la capacità di acconsentire validamente ad un rapporto sessuale – ovviamente al di fuori di qualsiasi costrizione – all’età di quattordici anni. Soglia innalzata a sedici anni quando il rapporto coinvolga una delle persone qualificate di cui all’art. 609-quater C.p. Al di sotto di queste soglie d’età, e del tutto a prescindere dal consenso della vittima, si applica il delitto di atti sessuali con minorenne.
Avv. Ronny Spagnolo