I reati di bancarotta sono una serie di illeciti previsti dalla legge fallimentare a carico di imprenditori o amministratori societari che, prima o dopo il fallimento, abbiano compiuto una serie di condotte a danno della loro impresa o società, nonché dei propri creditori. Nell’ambito di questa famiglia di gravi reati merita una particolare menzione la bancarotta documentale: semplice o fraudolenta.
Com’è noto, infatti, qualsiasi imprenditore o amministratore societario è obbligato dalla legge (art. 2214 C.C.) a tenere aggiornate le scritture contabili, ovverosia a registrare ogni operazione economica in documenti utili a consentire in qualsiasi momento la ricostruzione della situazione economica e patrimoniale dell’impresa, anche garanzia dei suoi creditori.
Ogni volta che, in seguito al fallimento dell’impresa – individuale o societaria – il curatore fallimentare non sia in grado di ricostruire la situazione patrimoniale di quest’ultima a causa della mancata o irregolare tenuta delle scritture contabili e/o della loro sottrazione si realizzano i presupposti per contestare all’imprenditore fallito il delitto di bancarotta documentale.
A questo punto si pone però un problema. Nelle ipotesi omissive – nelle quali l’imprenditore si limiti a non tenere del tutto o a tenere irregolarmente le scritture contabili – la bancarotta documentale viene punita dalla legge fallimentare in virtù di due diverse previsioni normative: molto simili quanto a condotta vietata, ma dal regime sanzionatorio radicalmente differenziato.
Ai sensi dell’art. 217 L.F. si applica la pena della reclusione da sei mesi a due anni prevista per la bancarotta semplice
“al fallito che, durante i tre anni antecedenti alla dichiarazione di fallimento ovvero dall’inizio dell’impresa, se questa ha avuto una minore durata, non ha tenuto i libri e le altre scritture contabili prescritti dalla legge o li ha tenuti in maniera irregolare o incompleta”
Diversamente, ai sensi dell’art. 216 L.F., che tipizza lil grave delitto di bancarotta fraudolenta:
“È punito con la reclusione da tre a dieci anni, se è dichiarato fallito, l’imprenditore, che ha sottratto, distrutto o falsificato, in tutto o in parte, con lo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizi ai creditori, i libri o le altre scritture contabili o li ha tenuti in guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari”
Alla luce delle due summenzionate previsioni normative è evidente come la differenza tra le ipotesi omissive di bancarotta documentale – semplice o fraudolenta – dipenda eminentemente dal significato che si vuol attribuire al periodo “con lo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizi ai creditori“. La predetta tensione finalistica connota infatti soltanto il delitto di bancarotta fraudolenta, mancando in quello di bancarotta semplice.
I diversi indirizzi giurisprudenziali
Sul punto la giurisprudenza di legittimità si è spesso interrogata, giungendo peraltro a soluzioni piuttosto eterogenee.
- Secondo un primo indirizzo interpretativo, l’espressione “con lo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizi ai creditori” esprimerebbe una connotazione della condotta e non uno scopo dell’agente. La distinzione tra le due ipotesi di bancarotta documentale non riposerebbe perciò su di un diverso atteggiamento psicologico del responsabile, bensì nelle modalità obiettive della condotta. Anche l’ipotesi più grave di bancarotta fraudolenta documentale sarebbe quindi punibile a mero titolo di dolo generico (v. Cass. pen., sez. V, 8 giugno 2010, n. 21872; Cass. pen., sez. V, 23 febbraio 2006, n. 6769; Cass. pen., sez. V, 28 giugno 2005, n. 24328).
- Un secondo e più recente orientamento ha invece individuato l’aspetto discriminante tra le due fattispecie sull’elemento dell’impedimento della ricostruzione del volume d’affari o del patrimonio del fallito. Quest’ultimo rappresenterebbe infatti un evento della condotta richiesto ai fini dell’integrazione della bancarotta fraudolenta documentale ed invece assente nella fattispecie di bancarotta documentale semplice. Le due ipotesi delittuose avrebbero perciò una diversa struttura. La bancarotta documentale semplice costituirebbe un’ipotesi di reato di pericolo presunto e di pura condotta, dove la mancata o irregolare tenuta delle scritture contabili sarebbe punita in quanto tale. Diversamente, ricorrerebbe la più grave ipotesi fraudolenta quando dalla medesima condotta consegua l’impedimento a ricostruire il volume d’affari o lo stato patrimoniale del fallito (v. Cass. pen., sez. V, 21 luglio 2014, n. 32051; Cass. pen., sez. V, 9 novembre 2015, n. 44886).
- Infine, una terza ipotesi interpretativa fa leva sull’elemento soggettivo del reato. Mentre per la bancarotta fraudolenta documentale è richiesto che l’agente commetta il fatto nella consapevolezza di rendere in tal modo impossibile la ricostruzione delle vicende che interessano il patrimonio dell’imprenditore, per la bancarotta documentale semplice la condotta deve essere sostenuta indifferentemente da dolo o colpa, ravvisabile anche quando l’imprenditore evada i propri obblighi contabili per mera negligenza (Cass. pen. sez. V, 28 dicembre 2011, n. 48523; Cass. pen., sez. V, 23 febbraio 2016, n. 6769).
Più recentemente, con la sentenza n. 38302 del 15 settembre 2016 la V° sezione penale della Corte di cassazione sembra aver confermato l’indirizzo interpretativo volto a riconoscere la distinzione tra bancarotta documentale semplice e fraudolenta sul piano oggettivo della condotta.
Secondo quest’ultima pronuncia, infatti, rileverebbe “nella bancarotta semplice documentale l’aspetto meramente formale dell’omessa o irregolare o incompleta tenuta delle scritture contabili obbligatorie per legge, mentre nella bancarotta fraudolenta documentale un profilo sostanziale , atteso che, da un lato, l’illiceità della condotta non è circoscritta alle sole scritture obbligatorie per legge, riguardando tutti i libri e le scritture contabili genericamente intesi, e, dall’altro, è richiesto il requisito dell’impedimento della ricostruzione del volume d’affari o del patrimonio del fallito“.
Alla luce di quanto detto è quindi evidente come l’attuale assetto normativo non sia idoneo a definire in maniera univoca la differenza tra le due fattispecie nelle ipotesi di condotta omissiva. Il rischio, pertanto, è che una scelta tanto gradiva di effetti in termini sanzionatori venga letteralmente rimessa all’arbitrio della giurisprudenza, in spregio ai più elementari principi costituzionali che governano la materia.
Sembra quindi giunto il momento di sollecitare un intervento da parte del legislatore volto a fare finalmente chiarezza in materia.
Avv. Ph.D. Ronny Spagnolo