Sulla rilevanza penale del mobbing: i maltrattamenti sono configurabili anche all’interno di imprese medio-grandi |
Osservazioni a margine di Cass. Pen., Sez. VI, 22 ottobre 2014 (dep. 22 dicembre 2014), n. 53416, Pres. Ippolito, Rel. Bassi.[Lucia Zoli]1. Nella sentenza qui pubblicata, la Cassazione affronta nuovamente la questione relativa alla riconducibilità del mobbing al reato di «maltrattamenti contro familiari e conviventi». In particolare – nel solco del proprio orientamento dominante, incline a ritenere configurabile la fattispecie ex art. 572 c.p. solo in presenza del requisito della para-familiarità -, la Corte chiarisce le circostanze di cui il giudice di merito deve tenere conto per accertare la sussistenza di tale requisito, rifuggendo da considerazioni aprioristiche non di rado accolte nel recente passato. Questa, in breve, la vicenda: una lavoratrice in servizio da molti anni presso un’azienda operante nel settore dei prodotti chimici, con oltre venticinque dipendenti, subisce, al rientro dal periodo di maternità, una serie di comportamenti vessatori e discriminanti da parte del Presidente del C.d.A. e dell’Amministratore delegato della società, nello specifico consistenti nell’assegnazione a mansioni meno qualificanti rispetto a quelle cui era adibita nel periodo precedente il congedo, nell’esclusione da alcune occasioni conviviali comuni (come il mancato invito alla cena aziendale, esteso invece indistintamente a tutti gli altri dipendenti) ed infine nell’adozione di taluni provvedimenti disciplinari, culminati nel licenziamento per giusta causa, già ritenuti tutti illegittimi da parte del giudice del lavoro. Gli imputati, dapprima condannati dal Tribunale di Torino (sez. Chivasso), in quanto ritenuti colpevoli di una serie di «comportamenti ostili, persecutori, denigratori e lesivi della dignità personale della dipendente» rilevanti ex art. 572 c.p., vengono successivamente assolti in secondo grado. La Corte d’Appello di Torino, pur a fronte di fatti astrattamente riconducibili alla fattispecie di maltrattamenti, ha ritenuto carente, nel caso di specie, «il presupposto della “para-familiarità” che deve caratterizzare il rapporto di lavoro». Investita della questione, la Sesta Sezione Penale della Suprema Corte annulla con rinvio la decisione assolutoria di secondo grado, censurando l’illogicità della relativa motivazione, in particolare «laddove ha affermato l’insussistenza di un contesto interpersonale di natura para-familiare sulla base di argomentazioni contrarie a logica ed a comuni massime d’esperienza nonché a diritto». La sentenza di secondo grado, in effetti, aveva a tal fine valorizzato e ritenuto incompatibili con la costituzione di un clima affine a quello familiare vero e proprio i seguenti elementi fattuali: a) il numero dei dipendenti dell’azienda; b) la durata del rapporto di lavoro; c) la non esclusività della condotta mobbizzante, nella specie estesa a tutte le lavoratrici di rientro dal periodo di maternità; d) la reazione della vittima. Il monito indirizzato dalla Cassazione al giudice del rinvio è quello di accertare la sussistenza di un rapporto riconducibile ai contesti relazionali espressamente richiamati dall’art. 572 c.p. sulla base di criteri diversi rispetto a quelli adottati dalla Corte d’Appello di Torino: avendo riguardo, da un lato, alle «dinamiche relazionali in seno all’azienda e, nello specifico, a quelle intercorrenti fra la lavoratrice ed i datori di lavoro imputati», nonché, dall’altro, alla concreta «esistenza o meno di una condizione di soggezione e subalternità della vittima».
2. Secondo l’impostazione a lungo proposta dai giudici di legittimità, la riconducibilità del mobbing al reato di «maltrattamenti contro familiari e conviventi» tende ad incontrare restrizioni in ragione delledimensioni del contesto lavorativo-aziendale di riferimento. Sul presupposto che l’art. 572 c.p. tutelerebbe la personalità individuale, esposta a lesione nell’ambito di dinamiche relazionali particolarmente qualificate [cfr. C. Parodi, Ancora sumobbing e maltrattamenti in famiglia, in questa Rivista, 3 ottobre 2012 e Id., Mobbing e maltrattamenti alla luce della legge n. 172/2012 di ratifica ed esecuzione della Convenzione di Lanzarote, in questa Rivista, 19 novembre 2012, sulla necessità di superare il precedente orientamento secondo il quale la fattispecie in esame tutelerebbe il (non meglio definito) bene giuridico della “famiglia” e sull’irrilevanza a tal fine della simbolica collocazione sistematica e della rubrica], la Suprema Corte ritiene pressoché pacificamente, anche dopo le modifiche apportate dalla legge n. 172/2012, che tutti i rapporti richiamati dal 1° comma dell’art. 572 c.p. – ossia, oltre ai rapporti intercorrenti nell’ambito della famiglia c.d. naturale e di fatto, anche quelli di soggezione alla altrui «autorità», ovvero caratterizzati da ragioni di «educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte» – debbano condividere unanatura para-familiare [cfr. Cass. Pen., Sez. VI, 11 aprile 2014, n. 24057; Id., 8 aprile 2014, n. 18832; Id., 19 marzo 2014, n. 24642; Id., 10 ottobre 2011, n. 43100; Id., 22 settembre 2011, n. 685; Id., 6 febbraio 2009, n. 16594; così anche GUP Milano, 30 settembre 2011, in questa Rivista, 28 ottobre 2011, con nota di R. Bartoli]. Natura che le numerose decisioni in materia identificano nella informalità e discrezionalità dell’esercizio delle prerogative datoriali, nonché nella fiducia riposta dal dipendente nel regolare svolgimento del rapporto lavorativo [Cass. Pen., Sez. VI, 16 ottobre 2014, n. 49545; Id., 28 marzo 2012, n. 12517]. Da questa premessa l’orientamento tradizionale trae poi la seguente conseguenza: la relazione tra datore di lavoro e lavoratore subordinato – ascrivibile ai rapporti di soggezione alla altrui «autorità» ovvero a quelli instaurati «per l’esercizio di una professione» – sarebbe assimilabile al nucleo familiare vero e proprio, e dunque astrattamente rilevante ex art. 572 c.p., solo a fronte di una realtà aziendale di ridotte dimensioni [cfr. recentemente Cass. Pen., Sez. VI, 9 giugno 2014, n. 24057]. Specularmente, il reato di maltrattamenti non potrebbe trovare applicazione in presenza di imprese medio-grandi, la cui complessità ed articolazione organizzativa impedirebbe la creazione di quel clima «di prossimità permanente, di abitudini di vita (anche lavorativa) proprie e comuni alle comunità familiari» che l’art. 572 c.p. intenderebbe tutelare [cfr.Cass. Pen., Sez. VI, 16 aprile 2013, n. 19760, in questa Rivista, 22 settembre 2013, con nota di F. Ferri e M. Miglio].
3. L’adesione alla predetta impostazione conduceva tradizionalmente ad un risultato perentorio: l’impraticabilità della via penalerispetto alle vessazioni realizzate ai danni di un lavoratore nell’ambito di un’azienda di dimensioni medio-grandi [cfr. Cass. Pen., Sez. VI, 6 febbraio 2009, n. 26594]. Quale spazio di tutela residuava, dunque, nei confronti del dipendente mobbizzato all’interno di un contesto lavorativo complesso? Se si esclude la possibilità di sussumere il mobbing entro la fattispecieex art. 572 c.p., la cui descrizione normativa si fonda strutturalmente sul requisito della reiterazione ed è dunque idonea a reprimere il disvalore unitario della serie, il rimprovero penale non poteva che attestarsi unicamente sui singoli comportamenti vessatori autonomamente considerati. Tali comportamenti, sussistendone i rispettivi elementi costitutivi, possono rivestire i tratti della violenza privata [cfr. Cass. Pen., Sez. VI, 25 novembre 2010, n. 44803; Id., 8 marzo 2006, n. 31413], delle lesioni personali [cfr. Cass. Pen., Sez. V, 9 luglio 2007 n. 33624], dell’estorsione [cfr. Cass. Pen., Sez. II, 20 aprile 2010, n. 16656], in ipotesi con l’aggravante della commissione del fatto con abuso di relazioni di prestazione d’opera (art. 61 n. 11 c.p.). Tuttavia, si tratta pur sempre di incriminazioni non in grado di cogliere la natura unitaria del fenomeno in questione, neppure valorizzando l’esistenza di un legame tra le stesse nei termini di un «medesimo disegno criminoso» rilevanteex art. 81, 2° comma, c.p. [cfr. R. Bartoli, Mobbing e diritto penale, in Dir. pen. proc., 2012(1), 87]. Restano fuori, in ogni caso, quelle condotte comunque ascrivibili al fenomeno del mobbing ma di per sé penalmente neutre: condotte che, a ben vedere, potrebbero acquisire rilevanza penale solo se ricondotte ad una serie complessiva costitutiva di un reato abituale proprio. Allo scopo di non trascurare una visione unitaria del fenomeno, è stata in dottrina paventata la possibilità di ricondurre il mobbing – anche di tipo orizzontale o verticale ascendente – entro gli elastici confini della fattispecie di «atti persecutori» [cfr. A.M. Maugeri, Lo stalking tra necessità politico-criminale e promozione mediatica, Torino, 2010, 203 ss.; A. Galanti, Prime considerazioni in ordine al reato di stalking: se diventasse (anche) mobbing?, in Giust. pen., 2010(2), 63 ss.]. La sovrapponibilità tra fatti di mobbing e stalking – prospettabile qualora sia accertata la sussistenza di almeno uno dei tre eventi alternativi tipizzati dall’art. 612-bis c.p.: in ipotesi, uno stato di ansia del lavoratore o una alterazione delle sue abitudini di vita – non risulta peraltro ancora “testata” in sede giurisprudenziale. Al di là della rilevanza penale dei singoli episodi, nei contesti dimensionali di medio-grandi dimensioni residuava soltanto la tutela risarcitoria fondata sull’art. 2087 c.c.: la complessiva vicenda vessatoria ai danni del lavoratore tendeva, pertanto, ad andare esente da responsabilità penale. Alla luce di ciò, appare ancora meno ragionevole e financo discriminatoria la linea interpretativa ad oggi dominante e messa in discussione dalla Suprema Corte nella pronuncia in commento, della quale saranno di seguito messi in evidenza i tratti di maggiore significatività.
4. È opportuno, in primo luogo, soffermare l’attenzione sulle singole circostanze fattuali poste alla base della decisione assolutoriapronunciata dalla Corte d’Appello di Torino, poi censurata in sede di legittimità. a) Numero dei dipendenti. I giudici d’appello sostengono che l’elevato numero dei dipendenti (nella specie, oltre venticinque) sarebbe incompatibile con i tratti della para-familiarità del rapporto di subordinazione: alla elevata densità occupazionale, in altre parole, corrisponderebbe una minore intensità delle relazioni interpersonali. Nel medesimo senso, la stessa Suprema Corte aveva in passato avallato tale corrispondenza, tanto che la para-familiarità veniva di fatto riconosciuta con riferimento a contesti quantitativamente molto ristretti: si allude, in via esemplificativa, «al rapporto che lega il collaboratore domestico alle persone della famiglia presso cui svolge la propria opera o a quello che può intercorrere tra il maestro d’arte e l’apprendista» [cfr. Cass. Pen., Sez. VI, 16 giugno 2009, n. 26494, inForo it., 2009(2), 533, con nota di F.P. Di Fresco]. Se è vero, da un lato, che il ristretto numero di dipendenti può apparire sintomatico della condivisione di «consuetudini di vita tra soggetti», tale per cui potrebbe ritenersi ragionevole una relazione di diretta proporzionalità tra densità occupazionale e spersonalizzazione dei rapporti, dall’altro, tuttavia – è questo il fulcro della pronuncia in commento -, un criterio meramente quantitativo non può costituire unica e sicura guida per l’interprete. Il rifiuto del requisito dimensionale – con conseguente necessaria apertura ad un esame qualitativo del tipo di relazione instaurata tra le parti – emerge a chiari tratti nella sentenza in commento, specie laddove, accanto al formale rapporto di subordinazione (da individuarsi secondo il criterio giuslavoristico della titolarità dei tipici poteri datoriali), la Cassazione attribuisce rilievo ex art. 572 c.p. anche a «dinamiche para-familiari nell’ambito dei singoli reparti e, dunque, nei rapporti fra il capo reparto ed il singolo addetto». b) Durata del rapporto di lavoro. La circostanza che il rapporto con la dipendente mobbizzata sia intercorso per un ampio lasso temporale – secondo l’impostazione della Corte piemontese – militerebbe contro la possibilità di vedere integrato il requisito della para-familiarità, così come «l’anzianità di servizio della persona offesa esclude[rebbe] lo stato di soggezione». Tuttavia, la massima d’esperienza fatta propria dal giudice di secondo grado appare destituita di ragionevole fondamento: osserva, in proposito, la Cassazione che le condotte persecutorie ben potrebbero in concreto «essere tollerate per molti anni […] in ragione di una situazione di bisogno economico e mancanza di alternative professionali». c) Non esclusività della condotta mobbizzante. La Corte d’Appello di Torino tiene altresì in considerazione un altro fattore, ossia che i comportamenti discriminatori posti in essere dagli imputati non fossero riservati esclusivamente alla dipendente in questione, bensì investissero indistintamente l’intera categoria delle lavoratrici madri di rientro dal periodo di congedo. La non esclusività delle vessazioni sarebbe dunque anch’essa indicativa della natura spersonalizzata dei rapporti tra la vittima e gli imputati, facendo pertanto ricadere i fatti de quibus al di fuori del raggio applicativo del reato di maltrattamenti. Le censure dei giudici di legittimità si attestano nuovamente sullaillogicità del criterio in esame, il cui utilizzo darebbe adito a paradossali conseguenze. Così ragionando, in effetti, si giungerebbe al punto di introdurre una nuova causa di non punibilità in presenza di un atteggiamento persecutorio indirizzato non già ad una vittima isolata, bensì ad una classe di lavoratori. «Del resto, mai si è negata la configurabilità del reato di maltrattamenti commesso in un canonico contesto familiare allorché le condotte aggressive, prevaricatrici ed umilianti siano esperite dal pater familias abitualmente e sistematicamente nei confronti di tutti i membri di una famiglia molto numerosa». Come osservato dal Procuratore generale, la reiterazione delle condotte persecutorie ai danni di una pluralità di soggetti passivi appare, anzi, sintomatica di una particolare intensità del dolo. d) Reazione della vittima. Nel caso di specie, a seguito delle continuate vessazioni perpetrate ai suoi danni, la lavoratrice decide di denunciare i fatti ai mezzi d’informazione nonché alle competenti autorità. Ad avviso della Corte piemontese, anche la reazione della vittima dovrebbe essere considerata indicativa della mancanza di uno stato di soggezione. Ancora una volta, il tessuto motivazionale della sentenza d’appello viene sottoposto ad aspro vaglio critico in sede di legittimità. L’impostazione censurata, infatti, non solo erra in punto di diritto, ma rischia di veicolare un pericoloso messaggio – per così dire “astensionista” – alle vittime di delitti contro la persona. Sotto il primo profilo, è del tutto evidente come la punibilità del reato non possa dipendere da un comportamento successivo: post-fatto la cui realizzazione, peraltro, è del tutto rimessa alla volontà del soggetto passivo. In secondo luogo – oltre alla contraddizione insita nell’affermare «che il reato de quo sia configurabile soltanto a condizione che la vittima accetti passivamente le vessazioni subite» -, legittimare un’impostazione di questo tenore non farebbe altro che disincentivare l’iniziativa procedimentale della persona offesa.
5. Come anticipato, la Suprema Corte richiede al giudice del rinvio di accertare la sussistenza o meno di un rapporto di natura para-familiare tra gli imputati e la dipendente-vittima, nonché di una condizione di «soggezione e subalternità» in capo a quest’ultima, secondo una valutazione fondata non già su dati meramente quantitativi, ma piuttosto «sull’aspetto qualitativo, id est sulla natura dei rapporti intercorrenti tra datore di lavoro e lavoratore». Significativo risulta soprattutto il superamento del requisito delle dimensioni dell’impresa sub a. A tal proposito, l’impostazione a lungo dominante in sede di legittimità faceva leva sul predetto requisito, di fatto introducendo nel testo dell’art. 572 c.p. un elemento descrittivo non previsto dalla legge ma al contempo decisivo, in quanto idoneo a fungere da spartiacque tra la astratta configurabilità di una relazione di tipo familiare, da un lato, e la spersonalizzazione del rapporto superiore-subalterno, dall’altro. In effetti, già talune decisioni di merito hanno confutato la predetta impostazione, non escludendo a priori la configurabilità del reato di maltrattamenti in presenza di imprese di medio-grandi dimensioni [cfr. Trib. Milano, Sez. Cassano d’Adda, 14 marzo 2012, in questa Rivista; Trib. Milano, Sez. V, 30 novembre 2011, in questa Rivista]. Nel medesimo senso, si sono inoltre attestate le principali critiche mosse all’orientamento maggioritario della Suprema Corte da parte di un’attenta dottrina, incline a preferire in ogni caso una valutazione casistica di tipo qualitativo: il rilievo decisivo attribuito ad un criterio esclusivamente numerico – peraltro non previsto dalla legge e di per sé indeterminato – darebbe, infatti, luogo ad una«discriminazione irragionevole», ben potendo, anche nel contesto di imprese di grandi dimensioni, svilupparsi strette relazioni abituali tra lavoratore subordinato e diretto superiore gerarchico [cfr. A. Della Bella, La repressione penale del mobbing nelle aziende di grandi dimensioni, in Corr. mer., 2013(2), 198 ss.]. La posizione fatta propria dalla Cassazione nella sentenza in commento pare in un certo senso scalfire la rigidità del summenzionato criterio dimensionale, a favore di un giudizio particolaristico, più rispettoso dei principi di legalità (specie nella declinazione di riserva di legge e determinatezza) eragionevolezza dell’intervento penale. In primis, occorre ricordare che il requisito numerico non è previsto dalla legge: attraverso il suo utilizzo, pertanto, l’interprete introduce discrezionalmente un elemento decisivo per la configurabilità della fattispecie ex art. 572 c.p., in assenza di specifiche soglie di rilevanza penale a tal fine predisposte dal legislatore. Senza contare, peraltro, che un requisito siffatto risulta persino carente sotto il profilo della necessaria determinatezza: non è chiaro, invero, quale sia la precisa soglia numerica da prendere in considerazione. Infine, istanze di ragionevolezza sconsigliano anch’esse una risoluzione aprioristica della questione: il criterio dimensionale non consente di tenere in debita considerazione la diversa intensità delle dinamiche relazionali, aprendo così la strada a trattamenti potenzialmente discriminatori.
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