Mobbing e Stalking. Secondo una recente pronuncia della Corte di Cassazione, le ipotesi di mobbing sul lavoro possono essere inquadrate nel delitto di “atti persecutori”.
Sotto il profilo sociologico, il “mobbing” viene definito come la reiterazione sistematica nel tempo di una serie di comportamenti, aventi carattere persecutorio e discriminatorio, volti ad esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare ed isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro.
Nonostante l’indubbia offensività di tali comportamenti, ad oggi, non esiste nell’ordinamento italiano alcuna specifica fattispecie di reato idonea a contrastare il mobbing, nonostante le odierne forme di precarizzazione del lavoro rischino di accentuare ancora di più il fenomeno.
Nel vuoto legislativo, la giurisprudenza si è pertanto dovuta impegnare per cercare di dare a questa tipologia di comportamenti un adeguato inquadramento giuridico, così da poterli sanzionare.
Per fare questo, la giurisprudenza ha tradizionalmente inquadrato il fenomeno nell’ambito del delitto di maltrattamenti, di cui all’art. 572 C.p.
Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da due a sei anni.
Quest’ultima è una fattispecie di reato nata per contrastare ipotesi di violenza domestica, ma che la giurisprudenza è riuscita a rendere operativa anche in ambito lavorativo per via del richiamo della norma alle ipotesi di “maltrattamenti contro persone soggette all’autorità del responsabile”, così come generalmente avviene nei luoghi di lavoro.
Questa operazione di estensione del reato di maltrattamenti dal contesto familiare a quello lavorativo non ha tuttavia completamente risolto il problema.
Secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, infatti, il reato di maltrattamenti non può sempre trovare applicazione in ambito lavorativo. E’ infatti necessario che i maltrattamenti avvengano all’interno di un ambiente lavorativo nel quale sia riconoscibile una clima di para-familiarità, caratterizzato da relazioni personali intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre una posizione di supremazia.
Solo a queste condizioni il mobbing sul lavoro potrà essere contrastato ricorrendo al delitto di maltrattamenti, diversamente lo spiacevole fenomeno rischia di rimanere penalmente irrilevante.
E’ infatti del tutto evidente come se nell’ambito della piccola impresa il mobbing potrà quasi sempre essere agevolmente inquadrato nel delitto di maltrattamenti, molto più difficile sarà garantire lo stesso effetto nei contesti organizzativi più grandi, dove le relazioni tra i soggetti tendono inevitabilmente a spersonalizzarsi.
Proprio al fine di evitare una così evidente lacuna sanzionatoria – per lo meno finché il legislatore non deciderà di intervenire introducendo una specifica ipotesi di reato – la giurisprudenza ha cercato di esplorare nuove vie per inquadrare il fenomeno.
Si è quindi cominciato, inizialmente sopratutto da parte della giurisprudenza di merito, ad inquadrare il mobbing all’interno della figura degli atti persecutori, di cui all’art. 612-bis C.p.
Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.
In questo modo si ottiene infatti il risultato di poter incriminare tali condotte anche al di fuori di contesti nei quali siano riconoscibili relazioni di tipo parafamiliare.
Con la sentenza n. 35588/2017 anche la Corte di Cassazione sembra aver accolto quest’impostazione, sanzionando un’ipotesi di mobbing in ambito lavorativo ricorrendo appunto al delitto di stalking.
La Corte di legittimità ha infatti sancito la definitiva condanna del responsabile di un servizio comunale per la persecuzione professionale posta in essere in danno di una lavoratrice sua subordinata, chiamando peraltro il datore di lavoro a risarcire in solido con lo stalker i danni da questo cagionati alla vittima.
In caso di mobbing orizzontale, ovverosia non commesso dal datore di lavoro ma da un collega, sarà peraltro possibile ipotizzare un concorso di responsabilità – anche sul piano penale – del datore di lavoro che, pur consapevole dei maltrattamenti subiti dal suo dipendente, non sia intervenuto per porvi fine.
Ai sensi dell’art. 2087 del codice civile, infatti, il datore di lavoro è sempre personalmente responsabile della sicurezza e, più in generale, della tutela dell’integrità psicofisica dei suoi dipendenti.
L’inquadrabilità del mobbing nel reato di stalking rimane tuttavia oggetto di discussione in dottrina e, comunque, occorre ricordare come, al contrario dei maltrattamenti, il delitto di atti persecutori sia procedibile esclusivamente a querela di parte.
Ciò significa che sarà possibile contestare il delitto di stalking soltanto qualora la vittima abbia formalmente chiesto di perseguire il responsabile entro il termine perentorio di sei mesi dall’ultimo atto persecutorio subito.
Avv. Ronny Spagnolo, Ph.D.