La coltivazione di marijuana per uso personale non sempre è illecita. Potrebbe apparire un’affermazione assurda, atteso che è ben noto a tutti come lo Stato punisca assai duramente ogni condotta concernente le sostanze stupefacenti, ma un esame della più recente giurisprudenza sulla questione induce a dare una risposta meno scontata.
L’art. 73 del D.P.R. 309/1990 punisce in maniera piuttosto severa “chiunque coltiva, produce, fabbrica, estrae raffina, vende, offre o mette in vendita, cede, distribuisce commercia, trasporta, , procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo sostanze stupefacenti”.
Nonostante ciò, come conseguenza di un referendum abrogativo celebratosi con esito positivo nel 1993, limitatamente alle condotte di “ricezione, acquisto e detenzione” la rilevanza penale (e quindi il rischio di vedersi contestare un reato) è esclusa qualora la sostanza stupefacente sia acquistata o detenuta esclusivamente per uso personale; e non quindi per la cessione a terzi.
Alla luce di un tale assetto normativo, sembrerebbe pertanto evidente come la coltivazione di sostanze stupefacenti sia sempre penalmente illecita, del tutto a prescindere dallo scopo – eventualmente di esclusivo consumo personale – della condotta.
Tutto ciò ha indotto la giurisprudenza ad interrogarsi sulla logicità di un sistema che sembra premiare chi, per uso personale, si rivolge al mercato illecito degli stupefacenti – finanziando così la criminalità organizzata – piuttosto di chi, coltivando in proprio la sostanza stupefacente necessaria al proprio consumo, non alimenta tale traffico illecito (Sulla questione si è peraltro espressa la Corte Costituzionale con la sentenza n. 360/1995).
Si è pertanto fatto notare come la coltivazione domestica di un numero limitato di piante di marijuana, pur essendo un fatto che formalmente rientra nell’ipotesi di reato, sia una condotta che di per sé non è in grado di attentare alla salute pubblica: ovverosia il bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice che giustifica la repressione penale.
In passato, quindi, la Corte di cassazione aveva iniziato a dare rilievo alla tipologia di coltivazione: ritenendo che il reato in questione ricorresse soltanto nell’ipotesi di coltivazione organizzata tecnico-agraria e non anche nell’ipotesi di modeste coltivazioni domestiche votate all’autoconsumo. In quest’ultima ipotesi la condotta, seppur formalmente illecita, doveva ritenersi come inoffensiva e pertanto non punibile.
Rispetto a queste aperture, tuttavia, erano intervenute le Sezioni Unite della Corte di Cassazione che, con le sentenze n. 28605 e 28607 del 2008, avevano stabilito che tutte le tipologie di coltivazione dovevano essere ritenute penalmente illecite: del tutto a prescindere dalla tipologia e dalla dimensione dell’attività, così come dalla finalità di autoconsumo. L’unico ipotesi di inoffensività della condotta andava ravvisata nella coltivazione di piante del tutto inidonee a generare effetti stupefacenti nell’assuntore.
Un tale arresto giurisprudenziale era peraltro stato confermato in seguito da varie sentenze (v. Cass. pen. Sez. III, 25 marzo 2014, n. 37835), secondo le quali tutte le forme di coltivazione di sostanze stupefacenti dovevano dirsi illecite, a prescindere dalla finalità di uso personale o meno.
Negli ultimi anni, tuttavia, è riemerso all’interno della stessa Corte di Cassazione un diverso filone interpretativo, più incline a ed escludere la rilevanza penale nelle ipotesi di piccole coltivazioni domestiche di marijuana destinate al mero utilizzo personale.
Secondo tali pronunce, infatti, deve ritenersi inoffensiva, e perciò anche non penalmente illecita, la coltivazione di un piccolo numero di piante di marijuana nei limiti in cui non sia destinata alla cessione a terzi.
Conforta una tale interpretazione della norma una recente sentenza della Corte di Cassazione che, solo pochi mesi fa, ha ritenuto che non avesse commesso alcun reato colui che aveva coltivato a casa sei piante di marijuana per far fronte al proprio fabbisogno personale.
In particolare, in quell’occasione la Corte di legittimità ha espresso il seguente principio di diritto: “La condotta di coltivazione non autorizzata di una pianta [di marijuana] conforme al tipo botanico, la quale abbia, se matura, raggiunto la soglia di capacità drogante minima, non è penalmente rilevante quando sia del tutto inidonea, in ragione del conclamato uso esclusivamente personale e della minima entità della coltivazione, a determinare sia un pericolo per la salute pubblica, sia la possibile diffusione della sostanza producibile”. (Cass. pen., Sez. III, 21 luglio 2017, n. 36037)
Pur trattandosi di un ambito ancora non del tutto chiarito, anche alla luce di un dettato normativo piuttosto rigido e della compresenza di sentenze di legittimità di segno opposto, sembra perciò tornare ad aprirsi uno spiraglio per tutti quegli assuntori di cannabis che preferiscono non rivolgersi al mercato nero per garantire il proprio fabbisogno.
Avv. Ronny Spagnolo, Ph.D.