Al contrario di quello che molti sembrano pensare, la rete internet non rappresenta una specie di mondo parallelo in cui tutto è permesso, bensì è un contesto dove le persone sono chiamate a rispettare i medesimi limiti di legge previsti per la “vita reale”. In particolar modo, anche la diffamazione su facebook è un reato e comporta il rischio di essere penalmente perseguiti.
L’art. 595 c.p. punisce con la pena della reclusione fino ad un anno e la multa fino ad euro 1032 chi, comunicando con più persone offende l’altrui reputazione. La pena prevista per il reato in esame è tuttavia aumentata – reclusione da sei mesi a tre anni o multa non inferiore a euro 516 – qualora l’offesa sia recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità.
Dunque, affinché si configuri la diffamazione, è necessario, da un lato la comunicazione con più persone, dall’altro, l’offesa all’altrui deputazione.
Più nello specifico, è ormai pacifico in giurisprudenza come la diffusione di un messaggio con le modalità consentite dall’utilizzo di una bacheca facebook abbia potenzialmente la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone. Pertanto, la condotta consistente nel postare un commento sulla bacheca facebook, ove tale commento sia offensivo, configura a pieno titolo il reato di diffamazione aggravata, stante l’idoneità del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del commento tra un consistente numero di persone.
Con la sentenza n. 3981 del 2016 la Corte di Cassazione è intervenuta per chiarire se si possa affermare il carattere diffamatorio di un’espressione non offensiva, alla luce del contesto nel quale la stessa è stata pubblicata. Nel caso di specie, infatti, un utente era intervenuto in una discussione pubblicata su di una bacheca facebook in cui altri utenti avevano pesantemente diffamato un terzo, postando anch’esso un commento critico, ma di per sé non diffamatorio verso la medesima persona. La Corte di Appello di Trieste aveva confermato la condanna per diffamazione di questa persona, ritenendo che con l’intervento nella discussione quest’ultima avrebbe fornito una volontaria adesione e consapevole condivisione delle espressioni diffamatorie usate da altri soggetti partecipanti alla discussione su Facebook.
La Corte di Cassazione ha tuttavia cassato la suddetta sentenza, ritenendo che il caso in questione non configurasse alcuna ipotesi di reato.
Ad avviso dei Giudici di legittimità, infatti, la Corte d’Appello ha “attribuito tipicità ad una condotta ritenuta intrinsecamente inoffensiva solo perché la stessa dovrebbe considerarsi indirettamente e implicitamente adesiva a quella diffamatoria commessa in precedenza da altri … il che è per l’appunto errato nella misura in cui, per un verso, attribuisce all’art. 595 c.p. contenuti ultronei rispetto a quelli effettivamente ricavabili dalla lettera della disposizione incriminatrice e, per l’altro, finisce per negare qualsiasi effettività alla libertà di manifestazione del pensiero garantita dall’art. 21 Cost.”
Ciò che rileva nei reati come la diffamazione, precisa la Corte di Cassazione, è la condotta materiale effettivamente tenuta: “è evidente che l’imputato abbia inteso condividere la critica alla persona offesa, ma non altrettanto che egli abbia condiviso le forme (illecite) attraverso cui altri l’avevano promossa, giacchè egli non ha posto in essere un comportamento materialmente apprezzabile in tal senso.”
Ciò premesso, va tuttavia ricordato come invece configuri senza ombra di dubbio un’ipotesi di concorso in diffamazione aggravata il comportamento di chi, pur non facendo dichiarazioni diffamatorie, condivida sulla propria pagina facebook post o pubblicazioni diffamatorie di terzi, contribuendo in tal modo a rafforzare la diffusione sul social network del messaggio illecito altrui e così aggravando l’attacco alla reputazione della persona offesa.
Va infine rammentato come la diffamazione sia un’ipotesi di reato procedibile a querela di parte: ciò significa che il reato – e quindi il suo autore – può essere penalmente perseguito unicamente se la vittima propone querela all’Autorità giudiziaria entro il termine perentorio di tre mesi dal momento in cui ha avuto notizia del fatto.
Avv. Ronny Spagnolo, Ph.D.