Capita frequentemente che il consumatore di cannabis cerchi di evitare di rifornirsi sul mercato illegale degli stupefacenti (controllato dalla criminalità organizzata) mediante la coltivazione di marijuana in ambiente domestico.
Tutto ciò crea non pochi problemi, dato che la condotta di “coltivazione” di sostanze stupefacenti è prevista come reato – ed è peraltro punita piuttosto severamente – dall’art. 73 del D.P.R. 309/1990 e, al contempo, non è invece contemplata dall’art. 75 del medesimo apparato normativo nel novero di quelle condotte che, nei limiti in cui siano finalizzate al consumo personale, risultano penalmente irrilevanti e sanzionate soltanto sul piano amministrativo.
Ciò ha indotto la giurisprudenza di legittimità, dopo alcune aperture iniziali, ad assumere un atteggiamento particolarmente rigoroso, ritenendo che ogni forma di coltivazione di piante in grado di fornire sostanze idonee a produrre un effetto stupefacente sull’uomo dovesse considerarsi reato, a nulla rilevando il fatto che si trattasse di condotte strumentali all’uso personale, di per sé penalmente lecito. Il delitto previsto dall’art. 73 della normativa sugli stupefacenti assumerebbe infatti i contorni del reato di pericolo astratto e, in tal modo, punirebbe sempre la coltivazione delle sostanze stupefacenti per il rischio che queste ultime possano diffondersi ulteriormente.
Tale posizione è stata tuttavia fortemente criticata, in quanto ritenuta irragionevole. Posto che il consumo di stupefacenti non costituisce reato, che senso avrebbe ritenere lecito l’acquisto della sostanza dal mercato illegale – che alimento in tal modo la criminalità organizzata – e non anchela coltivazione “in proprio”, che invece non alimenta questo mercato?
La tematica rimane tutt’ora particolarmente complessa e difficilmente potrà essere superata a prescindere da un intervento legislativo che restituisca coerenza alla disciplina. Merita tuttavia di mettere in luce due recentissime novità che hanno interessato la tematica in esame.
Innanzitutto, il Decreto legislativo n. 8/2016, che ha recentemente depenalizzato tutta una serie di reati minori, ha coinvolto anche la disciplina sugli stupefacenti.
Da questo punto di vista, tuttavia, l’intervento è stato assolutamente marginale e prevedibilmente dallo scarsissimo valore applicativo. La coltivazione di stupefacenti, infatti, del tutto a prescindere dalla finalità col quale viene realizzata, rimane reato.
Il legislatore si è piuttosto limitato a prevedere come mero illecito amministrativo, anziché penale, la condotta di chi, nonostante sia autorizzato dalle autorità alla coltivazione della cannabis per la produzione di farmaci, trasgredisca ad alcune delle prescrizioni indicate dall’atto autorizzativo.
Sul tema, appare invece più significativo riportare quanto stabilito dalla recente sentenza n. 5254, pronunciata il 9 febbraio 2016 dalla VI° sezione penale della Corte di Cassazione, la quale rappresenta un’interessante apertura rispetto al passato.
La vicenda esaminata dalla Corte prende il via dal ricorso proposto da una coppia condannata per “Produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti” di cui all’art. 73 del D.P.R. 309/1990, per aver coltivato nella propria abitazione due piante di canapa indiana e per aver detenuto in un essiccatore 20 foglie della medesima pianta.
La Corte d’appello aveva ritenuto irrilevante la destinazione della sostanza ad uso personale o meno.
Secondo la difesa, invece, la condotta non avrebbe avuto alcuna attitudine alla lesione del bene giuridico protetto dalla norma incriminante poiché, tra l’altro, nel caso concreto, era indubbia la destinazione al mero uso personale.
Ebbene, in quest’occasione la Corte di legittimità ha ritenuto superabile il rigido orientamento precedentemente espresso dalle Sezioni Unite secondo cui “la coltivazione di piante destinate alla produzione di stupefacente è una condotta sempre punibile”.
Secondo la recentissima pronuncia della Corte di Cassazione, infatti, nel caso di specie doveva trovare applicazione l’insegnamento impartito dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 139 del 2014.
In quell’occasione, infatti, il Giudice delle Leggi aveva ribadito come”resti precipuo dovere del giudice di merito di apprezzare – alla stregua del generale canone interpretativo offerto dal principio di necessaria offensività della condotta concreta – se essa, avuto riguardo alla ratio della norma incriminatrice, sia, in concreto, palesemente priva di qualsiasi idoneità lesiva dei beni giuridici tutelati“.
Secondo la Cassazione, nel caso in questione ricorreva appunto l’assenza di offensività della condotta, essendo quest’ultima talmente lieve da determinare un irrilevante aumento di disponibilità di droga e da non rendere prospettatile alcuna ulteriore diffusione della sostanza.
La Cassazione perveniva pertanto alla seguente conclusione: “l’avere coltivato due piantine, senza alcuna ragione di ritenere che i ricorrenti avessero altre piante non individuate e, quindi, essendo certo che quanto individuato esauriva la loro disponibilità senza alcuna prospettiva di utile distribuzione in favore di terzi consumatori, non è in concreto una condotta offensiva per le ragioni anzidette“.
In questo modo la Corte non ha in alcun modo ritenuto la liceità della coltivazione di marijuana in considerazione della sua strumentalità al consumo personale, bensì ha riconosciuto come il reato di coltivazione non ricorra tutte le volte in cui il quantitativo di droga prodotto sia tanto esiguo (nel caso di specie poche piantine di marijuana) da non determinare alcun rischio di diffusione della sostanza.
Si tratta di una giurisprudenza ancora non consolidata, ma che ha il merito di sforzarsi di ricondurre il sistema a coerenza, nonché di scongiurare l’irrogazione di trattamenti sanzionatori talvolta draconiani in relazione a condotte sostanzialmente innocue.
Avv. Ronny Spagnolo, Ph.D.