Com’è ben noto a qualunque appassionato di caccia, l’attività venatoria è regolata dalla Legge n. 157 del 11 febbraio 1992.
In particolare, la suddetta normativa regola i tempi ed i modi nei limiti dei quali la caccia è consentita dallo Stato. Per esercitare l’attività venatoria, infatti, è necessario munirsi di un’apposita licenza amministrativa, che viene concessa dopo aver verificato determinati requisiti ed in cambio dell’annuale pagamento di una somma in favore dello Stato.
Ovviamente, la licenza di caccia non consente qualsiasi forma di attività venatoria, bensì pone dei precisi limiti temporali, spaziali nonché di quantità e specie cacciabili.
Ai sensi degli artt. 30 e 31 della L. 157/1992 sono quindi previsti tutta una serie di illeciti, penali ed amministrativi, che possono interessare i cacciatori che esercitano la caccia in maniera difforme a quanto previsto dalla legge.
Si fa in particolare riferimento alle ipotesi di caccia: in periodi dell’anno preclusi, di animali protetti, in zone precluse, con modalità vietate o di un numero eccessivo di esemplari rispetto a quelli consentiti per ciascuna uscita venatoria.
Si tratta in generale di contravvenzioni, ovverosia di reati di scarsa gravità per i quali vengono comminate pene piuttosto lievi, tanto da determinare spesso l’estinzione del procedimento prima della loro stessa irrogazione a causa del sopraggiungere della prescrizione del reato.
Inoltre, ai sensi del III° comma dell’art. 30 della Legge 157/1992, in queste ipotesi è espressamente esclusa la possibilità di contestare il reato di furto.
Il furto venatorio: quando ricorre e quali sono le conseguenze?
Nettamente differente è la posizione di colui che svolge attività venatoria di frodo, ovverosia senza avere la necessaria licenza di caccia: caso che può ricorrere quando non si sia mai conseguito la licenza, ma anche quando quest’ultima non sia stata rinnovata oppure sia stata revocata dall’Autorità.
A questo proposito, va infatti rammentato come, ai sensi del primo articolo della Legge n. 157/1992, “la fauna selvatica è patrimonio indisponibile dello Stato”.
Ciò significa che chiunque se ne appropri illegittimamente, ovverosia senza essere mai stato autorizzato in questo senso dal legittimo proprietario, cioè dallo Stato, commette il grave reato di furto aggravato di cui agli artt. 624 e 625 C.p. In particolare, per tale reato la legge commina una pena della reclusione da 1 a 6 anni e la multa da 103,00 a 1.032,00 euro.
Inoltre, a seconda delle modalità più o meno cruente utilizzate per cacciare le prede, potranno ricorrere altresì i delitti di cui agli artt. 544-bis e 544-ter C.p., ovverosia di uccisione di animali o di maltrattamento di animali.
Concludendo, pertanto, può affermarsi quanto segue: mentre chi esercita l’attività venatoria irregolarmente, ma pur sempre essendo titolare di una regolare licenza, potrà commettere soltanto uno o più dei blandi illeciti contravvenzionali previsti dalla Legge 157/1992; chi invece caccia pur non possedendo una licenza rischierà di vedersi contestato il ben più grave delitto di furto aggravato (v. Cass. Pen., sez. V, n. 12680 del 25 marzo 2015).
Avv. Ronny Spagnolo, Ph.D.